Pubblico impiego in piazza: “Contratto subito”
«Contratto subito». Questo lo slogan dello striscione d’apertura del corteo partito da piazza della Repubblica a Roma, per la manifestazione nazionale promossa dai sindacati del pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil, da Confsal e Gilda. Nel complesso hanno protestato le categorie di 600 diverse professioni, dai dipendenti dei ministeri e degli enti locali, al personale della scuola e della sanità. «Siamo oltre 30 mila», dicono dal palco gli organizzatori.
L’ULTIMATUM AL GOVERNO
Nel corteo riecheggiano le parole del ministro Poletti, secondo cui l’ora di lavoro è un parametro superato. «L’idea» che emerge è quella di un «ministro che non conosce com’è fatto il lavoro», attacca Susanna Camusso e «vuole apparire come Ufo robot, per risolvere tutti i problemi. Ma le condizioni non vanno che peggiorando». La leader Cgil accusa il governo di non volere il rinnovo dei contratti e non esclude lo sciopero generale: «Decideremo come proseguire la mobilitazione sulla base delle risposte che riceveremo». La conferma arriva dal segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo: «Se non si fa il contratto subito, entro l’anno, la prossima manifestazione non sarà né di sabato, né di domenica».
IN PIAZZA ANCHE LANDINI
A fianco dei lavoratori ci sono anche i metalmeccanici della Cgil: «Il contratto è un diritto di tutti», afferma il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, che ieri aveva detto di non utilizzare solo l’ora-lavoro come riferimento per i contratti. «Rivendichiamo il diritto al rinnovo del contratto bloccato da sei anni - afferma il segretario della Fp-Cgil, Rossana Dettori - un blocco ritenuto illegittimo dalla Corte Costituzionale. Vogliamo un contratto sia per la parte normativa sia per la parte salariale: chiediamo un aumento di 150 euro per restituire almeno in parte i soldi persi in sei anni dai lavoratori, in media 4.800 euro. Il governo invece ha stanziato solo 300 milioni, pari a 5 euro al mese: solo una mancia».
IL CASO DELL’ORA LAVORATIVA
Le parole di Poletti, peraltro ribadite in mattinata intervenendo ad un convegno in provincia di Udine («l’ora-lavoro non può essere l’unico parametro» per misurare il rapporto tra lavoratore e opera realizzata «viste le novità che avanzano nel mondo»), non vanno giù nemmeno alla leader della Cisl Anna Maria Furlan: «Il ministro non ha espresso opinioni condivisibili. Che significato hanno le battute? È un tema troppo serio» quello dei contratti, la sua «uscita è stata estemporanea». Quindi, se il Governo vuole dimostrare attenzione alla contrattazione, «ha qui una bella cartina di tornasole - afferma Furlan -: rinnovi subito i contratti». Sul piede di guerra anche il numero uno della Uil, Carmelo Barbagallo. «Poletti è entrato a gamba tesa sul rinnovo dei contratti e questo non va bene», sostiene, e avverte: «Se vogliamo discutere seriamente, siamo pronti» ma se «si pensa con slogan giornalistici di attaccare la contrattazione, secondo un neoliberismo selvaggio, allora hanno sbagliato tempo e modo».
LA PRECISAZIONE DEL MINISTRO
Critico anche il capo delle tute blu della Cgil Maurizio Landini, che parla di offesa ai lavoratori. Ma c’è anche chi difende le parole del ministro. Per l’industriale Alberto Bombassei Poletti «l’ha detta male ma dietro una provocazione c’è anche tanta verità, il sistema lavoro andrebbe un po’ rivisto». E l’ex ministro del lavoro Maurizio Sacconi osserva che si tratta di «una constatazione perfino banale sui cambiamenti in atto nel lavoro che conducono a ritenere sempre più importante il risultato, rispetto al tempo di lavoro» nella definizione della retribuzione. «La valutazione oraria c’è e io ho solo detto non consideriamo questa l’unico metro attraverso il quale si può misurare la relazione tra una persona e l’opera. Del resto - ha precisato Poletti nel suo intervento in mattinata - ho parlato a una università, a dei ricercatori. E questo non è un attentato ai diritti, figuriamoci. Salvaguardare le tutele storiche va bene ed è del tutto legittimo - ha detto ancora - ma non può diventare la ragione per la quale non vediamo ciò che cambia».
Fonte: La Stampa - 28 novembre 2015