Uil: la crisi ha toccato un italiano su tre, sparito un milione di posti

Uil: la crisi ha toccato un italiano su tre, sparito un milione di posti

Uil: la crisi ha toccato un italiano su tre, sparito un milione di posti

Si tratta di quasi 13 milioni di donne e uomini (+42,6% sul 2008) che hanno un lavoro instabile, che hanno subito una riduzione di orario o lo hanno perso. Lo afferma la Uil in un corposo rapporto dal titolo «No Pil? No Jobs».

Secondo lo studio le difficoltà della crisi hanno creato un «cratere» nel nostro tessuto sociale e produttivo. Nello specifico, nel solo 2013, 4,2 milioni di persone hanno vissuto l’esperienza degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità, ASPI e mini ASPI), con un aumento del 57% rispetto al 2008 (1,5 milioni di persone in più); 3,1 milioni di persone sono alla ricerca attiva di un posto di lavoro, in aumento dell’83,8% rispetto al 2008 (1,4 milioni di persone in più); 1,8 milioni sono le persone che, rassegnate, un lavoro neanche lo cercano.

È aumentato, inoltre, il ricorso al part-time involontario (70,1% in più), con circa 500 mila persone coinvolte; 2,2 milioni di persone hanno un lavoro a termine; infine oltre 1 milione di persone ha un contratto di lavoro non subordinato (collaborazioni, buoni lavoro, tirocini), ma che in realtà nasconde rapporti di lavoro dipendente. A questi andrebbero aggiunti ulteriori 400 mila persone che, pur lavorando con partita Iva, svolgono di fatto lavoro subordinato.

Nell’insieme di questi 6 anni di crisi, è sparito 1 milione di posti di lavoro, di cui più della metà riguarda l’occupazione dipendente; il tasso di disoccupazione passa dal 6,7% del 2008 al 12,2% nel 2013, quello giovanile dal 21,3% del 2008 al 40% nel 2013 (quasi raddoppiato). La sofferenza, tuttavia, non si misura soltanto con la quantità ma, anche, con la qualità del lavoro e delle retribuzioni. Anche il reddito medio da lavoro dipendente e assimilato segna il passo in questo periodo, ed è un ulteriore parametro indicativo dello stato di salute del nostro sistema produttivo.

Si è passati dagli oltre 21,1 milioni di contribuenti del 2008 ai 20,8 milioni del 2013; il reddito medio imponibile è passato dai 19.640 euro del 2008 ai 20.282 euro del 2013, crescendo molto al di sotto dell’indice dei prezzi al consumo. Lo studio ha poi analizzato l’indice di «sofferenza occupazionale» in base a 3 indicatori (mercato del lavoro, ammortizzatori sociali, reddito medio), suddivisi a loro volta in 9 parametri. Da questi emerge che il Sud si colloca 31,6 punti percentuali al di sopra della media nazionale, mentre nel Centro Nord tutti e 3 gli indicatori fanno segnare indici al di sotto della media.

Tutti i singoli parametri fanno registrare un malessere occupazionale più accentuato al Sud, con la sola eccezione della cassa integrazione che, in tale macro area, è al di sotto della media nazionale e il Centro Nord al di sopra. Sono 9 le Regioni con un indice di disagio al di sopra della media nazionale: alle 8 Regioni del Mezzogiorno si aggiungono le Marche. A guidare questa «triste» classifica” c’è la Calabria, seguita da Campania e Puglia; meno malessere in Lombardia, nella Provincia Autonoma di Bolzano e in Veneto.

Se si guarda le province, la posizione di difficoltà riguarda ben 46: sono quasi tutte collocate nel Sud con l’eccezione di 10 province collocate nel Centro Nord, tra cui Rimini, Latina e Ascoli Piceno. Al primo posto troviamo Vibo Valentia, seguita da Crotone, Benevento, Foggia e Napoli; mentre il minor disagio si registra a Milano, Prato, Parma, Reggio Emilia e Lodi. Infine, nel Rapporto sono analizzati i dati su «come» e «quanto» si assume e si licenzia in Italia: nel 2013, meno 6% di avviamenti al lavoro, 81% lavoro «debole», 977 mila licenziamenti ed è disponibile l’ultima fotografia della partecipazione di ragazzi e imprese alla Garanzia Giovani.

«Questi dati - afferma il segretario confederale, Guglielmo Loy - confermano la necessità vitale del saper costruire sistemi di promozione al lavoro aderente a ciò che esprime il mercato del lavoro locale. La Uil crede fortemente che un «buon cambiamento» non possa prescindere da due fattori fondamentali: il lavoro e l’inclusione sociale. Lavoro per il maggior numero di persone, lavoro di qualità e che garantisca certezza di reddito e inclusione sociale, come condizione per evitare che il cambiamento «lasci per strada» i più deboli».

Fonte: Economia Il Secolo XIX - 16 luglio 2014

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